Chi segue con attenzione le relazioni
tra i giganti mondiali aveva capito da tempo quanto la momentanea convergenza
d’interessi tra Russia e Stati Uniti, seguita all’11 settembre 2001, fosse un
“fuoco di paglia”. Le manovre militari russo-cinesi, la cacciata delle basi del
Pentagono dall’Uzbekistan, l’architettura geopolitica disegnata
dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (definita da qualcuno il
“nuovo Patto di Varsavia”), l’annullamento anticipato da parte russa del debito
con il Club di Parigi dopo che già era stato saldato quello con il Fondo
Monetario Internazionale, il rifornimento dell’Armata rossa ad Hizbollah di
armamenti sofisticati per compensare parzialmente il suo gap tecnologico con
l’esercito sionista, l’aiuto all’Iran per la costruzione del reattore nucleare
di Busher, sono tutte azioni che avevano indispettito profondamente le alte
sfere statunitensi.
Il fatto che alla fine di settembre la Duma abbia
voluto rendere pubblico il suo studio sulle strategie antirusse progettate dalla
Casa Bianca, lascia intendere quanto profonda sia ormai la spaccatura tra le
dirigenze di Mosca e Washington. Il documento, pubblicato dalla “Pravda”,
s’intitola: “Il probabile scenario d’azione degli Stati Uniti nei confronti
della Russia nel periodo 2006- 2008” e lascia intendere come nell’arco dei
prossimi due anni gli USA tenteranno di mutare gli equilibri di quel paese sia
nell’ambito politico che in quello economico, alfine di favorire “una variante
tranquilla” delle cd. “rivoluzioni arancioni”.
Ciò che disturba in
particolare l’Establishment, è l’uso spregiudicato delle risorse energetiche da
parte del governo russo, arma che ha consentito in pochi anni la formazione di
un asse geoeconomico e potenzialmente geopolitico in funzione antiamericana.
Dalla Russia alla Cina, dal Venezuela all’India, dall’Iran al Pakistan, passando
per i più importanti Stati dell’Asia centrale, tutte le principali potenze
eurasiatiche (e non) si stanno compattando per riequilibrare l’unilateralismo
della Casa Bianca. Regista principe di quest’operazione è proprio il capo del
Cremlino, il Presidente Vladimir Putin, al quale solo poche settimane fa è stato
lanciato un avvertimento in stile mafioso con l’uccisione del vicepresidente
della Banca Centrale di Mosca, un uomo di sua fiducia.
L’omicidio è
stato l’antipasto di tutta una serie di mosse volte a “innervosire” la
nomenklatura, come la convocazione a Washington di un convegno pubblico di
separatisti ceceni, evidentemente non inseriti dall’Amministrazione Bush tra i
“gruppi terroristi” e la conseguente protesta ufficiale dell’ambasciatore russo
negli Stati Uniti. Ma è proprio analizzando in dettaglio il rapporto segreto che
la Duma ha invece voluto diffondere che si capisce la gravità della situazione e
la sua perfetta coincidenza con la realtà di questi giorni. Innanzitutto
Washington avrebbe dovuto sabotare il monopolio energetico della Federazione
Russa: ebbene, è notizia di oggi (04/10/2006) che si sarebbero arenate le
trattative per la cooperazione strategica tra l’ENI e la Gazprom già annunciate
da mesi e la cui firma era in programma il 14 ottobre 2006.
Essa segue
le forti polemiche scatenatesi dopo la denuncia di devastazione ambientale
nell’isola di Sakhalin rivolta dallo stesso Putin alla multinazionale
anglo-olandese Shell, protesta che ha consentito alla Russia di revocarle la
licenza di estrazione petrolifera e continuare il suo progetto di unificazione
delle attività di produzione, trasporto e vendita del petrolio e del gas
siberiano. Secondo il “Corriere della Sera”, il vero scopo del Cremlino sarebbe
una rinazionalizzazione del settore energetico, così vitale per l’economia russa
ma anche per quella europea, in controtendenza con il desiderio statunitense di
privatizzare le compagnie gas-petrolifere moscovite e segnare così la loro
subordinazione alle multinazionali occidentali. Stando a quanto scritto dagli
autori del rapporto, l’ex segretario del Comitato Centrale dell’URSS, Valentin
Falin, e l’ex generale dei servizi segreti Ghennadij Evstafiev, gli agenti
nordamericani avrebbero cavalcato le varie manifestazioni sociali che sarebbero
scoppiate nella “terra degli Zar”, così da screditarne l’immagine a livello
internazionale e preparare il terreno ad eventuali sanzioni economiche.
La manovra culminerebbe con l’espulsione della Russia dal G8 e con il
suo mancato ingresso nel World Trade Organization. Subito è scattata
l’occupazione del Ministero delle Finanze di Mosca, ad opera di qualche decina
di militanti del Partito nazionalbolscevico di Limonov, evidentemente caduti
nella trappola preparata dagli “arnesi” della CIA. Le proteste internazionali
che Washington si preparerebbe a scatenare, con l’obiettivo importantissimo
dell’allentamento dei rapporti economico-diplomatici tra la Russia da una parte,
la Cina e l’Unione Europea dall’altra, prevedono a giudizio degli analisti della
Duma il sabotaggio della politica estera putiniana e l’incoraggiamento ad
Ucraina e Georgia affinchè chiedano di entrare nella NATO.
Se a Kiev la
situazione appare per ora congelata, dopo le proteste antiamericane in Crimea e
il ritorno al governo di Victor Yanukovic, a Tblisi l’annuncio di voler aderire
all’Alleanza Atlantica sta rischiando di provocare una nuova guerra caucasica,
dato anche il corollario dei referendum che a breve interesseranno le regioni
indipendentiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. L’arresto dei 5
diplomatici russi è stato così interpretato da Putin come un casus belli e la
sua “linea della fermezza” nei confronti della Georgia sembra per ora aver
pagato; di certo i prossimi mesi saranno quelli decisivi per capire chi vincerà
questo estenuante braccio di forza tra il Cremlino e la Casa Bianca , intanto
chi vuole un’Europa sovrana e autonoma dagli Stati Uniti dovrebbe decidere in
fretta da quale parte schierarsi.
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